Giovanni di Cosimo de’ Medici
e il “priego” ai familiari
Giovanni de’ Medici fu il figlio secondogenito di Cosimo il Vecchio e di Contessina dei Bardi. Nato il 3 giugno 1421 a Firenze, nel 1426, da bambino, fu ascritto all’Arte del Cambio e nel 1433 seguì il padre nell’esilio a Venezia, l’anno dopo tornando con lui a Firenze. Nel 1438 invece fu a Ferrara a far pratica nel banco aperto in occasione del Concilio. Né fu mai emancipato dalla famiglia. Ebbe, tuttavia, come il fratello Piero, un’educazione umanistica, grazie alla quale poté coltivare la passione per l’antichità e frequentare eruditi, filosofi, poeti e musicisti.
Nel 1452 sposò Ginevra di Niccolò di Ugo degli Alessandri e nel 1454 ebbe l’unico figlio, Cosimino, deceduto nel novembre 1459.
Non molti anni dopo si ammalò gravemente e morì il I novembre 1463 a Firenze nel palazzo di via Larga. Fu sepolto nella sagrestia vecchia di San Lorenzo e, dal 1472, traslato con il fratello Piero nella tomba di Andrea del Verrocchio.
Giovanni è ricordato in un foglio non rilegato della SS. Annunziata: sono le sue ultime volontà redatte in forma privata, cioè non rogate dal notaio. La ragione è che dispose un lascito anche per Santa Maria dei Servi, come era detta allora, e ne fu fatta copia. La data è il 1469. Il testo è in volgare e inedito in questa versione. Lo stile è sintetico, senza fiorettature. Leggendolo, mostra il suo legame con la famiglia e l’Arte del Cambio, la predilezione per Fiesole, l’amicizia con Giovanni di Carlo Macinghi – che assieme al fratello Neri fu benefattore della SS. Annunziata –, il ricordo di una schiava di nome Barbara e la generosità verso la moglie Alessandra e il contabile Francesco Cantarsanti.
Il foglio inizia così:
“Io Giovanni di Cosimo fo questo ricordo acciò che Idio volesse fare altro di me resti notitia a chi dietro rimane di questa mia intentione.
Et voi Cosimo et Piero [padre e fratello] o qualunche altri rimanesse priego ... che vogliate mettere ad esecutione per salute et riposo dell’anima mia”.
Giovanni quindi dichiara di voler essere seppellito nella chiesa di San Lorenzo “insieme con gl’altri” e che ogni anno si faccia un rinnovale nel “modo et forma che s’è ordinato per gl’altri passati”.
Chiede anche di far celebrare per lui un ufficio nella chiesa di San Girolamo di Fiesole e di corrispondere una pietanza (era un uso comune) ai frati il giorno dopo San Girolamo, il tutto per una spesa di sei fiorini.
Fa lasciti simili, cioè per un ufficio e la pietanza, anche ad altre chiese e monasteri fiesolani: San Francesco dell’Osservanza “il dì più presso doppo a San Francescho”; San Domenico “el dì più apresso drieto a San Piero Martire”; la Badia il giorno dopo i SS. Cosimo e Damiano; e la Canonica “el dì più presso a San Giovanni Vangielista”.
Poi si ricorda della SS. Annunziata:
“Ancora in Firenze nella chiesa di Santa Maria de’ Servi si debbi fare uno uficio e pietanza nel modo e forma soprascripti di spesa di f. 8 ogni anno el dì più presso doppo la asumptione di nostra Donna”.
Oltre a ciò, da uomo pratico, per attuare i lasciti, chiede di consegnare ai “sopraddecti luoghi” tanti beni immobili, le cui entrate sarebbero servite al bisogno ... però beni e entrate “pervenghino” all’Arte del Cambio – che avrebbe eseguito quanto sopra detto.
In fondo alla pagina Giovanni fa poi segnare un lascito per i frati di Scopeto, biffato: f. 500 “che se ne muri la cappella loro o altro muramento di che habino più bisogno. Et questi non voglon mancare perché son danari ch’io ho sopra la coscienza mia”.
Lascia quindi All’arte del Cambio le case e possessioni:
– comprate a Fucecchio e “con bestie da lavorare e presto che fussono in su decti poderi”.
– La metà della possessione di Donoratico di Maremma con l’obbligo che, vivente Giovanni di Carlo Macinghi, l’entrata di detta metà pervenga a lui, il quale ne avrebbe disposto a sua volontà; dopo la sua morte invece sarebbe andata all’Arte suddetta.
– la parte della possessione di Bolgheri, cioè carati 19 e mezzo “dell’erba” e carati 4 e mezzo “d’erba, ghianda, acqua, spigha, foglia e terratico e case e ogni altra cosa apartenente”, abilitando in più a tenere sul pasco ogni anno 200 porci “alla ghianda”. Dispone però la condizione “che se i conti Simone o Gherardo del conte Bernabò della Gherardesca o loro discendenti la volessino ricomprare la possino e debbi loro essere rivenduta per quel pregio che gostò a me”. Fu pagata fiorini 3400 come appariva per carta di ser Meo Caffarecci da Volterra e “più per fiorini 400 di suggello” per carta di ser Niccolò di Francesco notaio fiorentino.
Similmente le entrate di Bolgheri, dopo la morte di Giovanni Macinghi, dovevano passare all’Arte del Cambio e un terzo venire usato dai consoli per “maritare povere fanciulle”. Le quali non dovevano avere più di f. 200 di dote e 50 per ciascuna, “che arà fede che habino consumato il matrimonio” (per evitare finti fidanzamenti).
Il Medici, essendo poi creditore del duca Giovanni di Calabria di 1000 ducati di camera a lui prestati tramite Iacopo di Andrea dei Pazzi, lascia il credito all’Arte del Cambio, con la condizione che da quello che se ne fosse ritratto “si debbino comprare beni in mobili, de’ fructi de’ quali se ne debbi maritare fanciulle ...”.
Le proprietà sopra citate e il credito non si sarebbero dovuti alienare, vendere, obbligare etc. mai e per nessuna ragione, ma se lo si fosse fatto sarebbero dovute andare con gli obblighi annessi all’Arte della Lana del comune di Firenze e, mancando questa, all’ospedale di Santa Maria Nova. Lo spedalingo e carmarlingo “d’accordo” avebbero dovuto fare “distributioni o limosine” come ordinato.
Giovanni in fondo ricorda anche la moglie Ginevra che aveva portato in dote f. 1000 “quali io ho confessati”. Chiede che le siano restituiti, tanto che “computativi dentro” faccino la somma di fiorini duemila larghi “e computatovi la donagione”. Le lascia anche “tutti i panni vestiri [sic] di qualunche ragione ella avesse a suo dosso ... mettendo nella coscientia sua che ne faccia paramenti e limosine per l’anima mia”.
Le dona pure le paghe e usufrutti d’ogni credito del Monte Comune scritte a suo nome affinché possa usufruirne per tutta la vita e poi passino “agli heredi miei”.
La invita anche “dal dì ch’io manchassi in sei mesi la debba lasciare el mondo et entrare a vivere in una religione non astrignendola ...”.
Lascia a Ginevra infine “la servitù di cinque anni cominciando el dì della mia morte e una mia schiava chiamata Barbara, la carta della quale dicie prima et doppo decti cinque anni lascio la decta schiava libera”.
Quindi prega Cosimo e Piero di dare f. 300 a ser Francesco Cantarsanti “per l’avermi servito tanto tempo come sapete” e fa a lui “fine generale d’ogni administratione che per me havesse facta in sino a questo dì ...”.
Paola Ircani Menichini, 8 settembre 2022. Tutti i diritti riservati.
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